Come s’è più volte osservato dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo 10 marzo 2023, numero 24, la vera ratio della novella in materia di whistleblowing è consistita nella volontà del legislatore, in primis europeo, di potenziare la sfera della protezione della persona segnalante.

La qual cosa, alla luce di quanto espressamente previsto dalla direttiva UE 1937/2019, è transitata innanzitutto attraverso l’ampliamento del perimetro avente ad oggetto la riservatezza della stessa.

Di qui, come noto, l’obbligo, in capo alle aziende con più di cinquanta dipendenti/che abbiano adottato un modello d’organizzazione, gestione e controllo ex decreto legislativo 8 giugno 2001, numero 231, d’istituire canali interni di segnalazione (piattaforme informatiche) che consentano alla persona segnalante vuoi di formalizzare la segnalazione whistleblowing vuoi di dialogare con il gestore della stessa riservatamente e ciò grazie alla tecnologia E2E.

Nella stessa, identica, ottica che precede, peraltro, s’è altresì intervenuti sul versante del divieto di ritorsioni in danno della persona segnalante.

In subiecta materia, come noto, ritorsione significa sì licenziamento, ma anche sospensione, mancata promozione, riduzione di stipendio, trasferimento di sede, etc.

Ciò che preme sottolineare, però, è che, proprio in virtù dell’entrata in vigore del citato decreto legislativo numero 24 del 2023, ad essere puniti, per il futuro, saranno anche i trattamenti sfavorevoli.

Il riferimento, più precisamente, è qui a tutti i trattamenti che affondino le proprie radici nell’avere la persona formalizzato una segnalazione whistleblowing – vale a dire nell’avere la persona denunciato irregolarità commesse in ambito aziendale –.

Se quanto precede è corretto, si tratta allora di comprendere in cosa concretamente possa consistere un trattamento sfavorevole rilevante ex decreto legislativo numero 24 del 2023.

Repertori di giurisprudenza alla mano, a venire qui in emergenza parrebbero essere comportamenti quali intimidazioni e/o molestie, intese esse alla stregua di minacce (più o meno dirette) e/o d’azioni ostili.

Interessante, in quest’ottica, appare la recente sentenza della Corte di cassazione numero 12688.

Chiamata a decidere sul licenziamento d’un manager apparentemente motivato da giusta causa, infatti, nel caso di specie, la Corte di cassazione ha inteso valorizzare le tesi proprie del ricorrente, che lamentava d’essere stato licenziato non per le proprie, pretese, mancanze, bensì per la propria attività di whistleblower.

Dopo avere ricordato come, per costante insegnamento di legittimità, nel giudicare in materia di licenziamento ritorsivo, il giudice debba sempre stabilire se «l’intento di vendetta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva [o meno] nella volontà di risolvere il rapporto di lavoro», i giudici di Cassazione hanno puntualmente ricostruito in chiave fattuale la vicenda, riscontrando come quanto affermato dal manager a propria difesa sembrasse cogliere nel segno.

Su queste basi, la Corte di cassazione, se, per un verso, ha potuto prendere atto del fatto che l’impugnato licenziamento faceva seguito a precedenti atti di ridimensionamento a loro volta ritorsivi, per l’altro verso, è arrivata a concludere che, nel caso di specie, a mancare fosse qualsivoglia giusta causa di licenziamento.

«La lezione da trarre» – come puntualmente segnalato, in data odierna, da Il Sole 24 Ore – «è […] ovvia: la giurisprudenza potrebbe imboccare una via di analisi molto granulare e puntigliosa dei motivi dietro a qualsiasi provvedimento che possa essere considerato ritorsivo […] nei confronti di chi ha segnalato presunti illeciti ai sensi della normativa whistleblowing. È bene che imprenditori e direzioni del personale ne prendano nota».