I.

S’è soliti dire [e corrisponde a verità] che parte integrante del modello 231 sia rappresentata dal sistema disciplinare passato in rassegna dall’art. 6 c. 2 lett. e) d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 e volto a sanzionare la violazione delle misure indicate nel modello 231 stesso.

E s’è soliti dire [e corrisponde, ancora una volta, a verità] che le logiche di modello 231 e correlativo sistema disciplinare siano tali da giustificare anticipazioni delle soglie di tutela.

II.

In caso di mancato rispetto delle misure indicate nel modello 231, questo predica il citato decreto, possono e devono essere irrogate sanzioni.

Ma dette sanzioni, questo è il punto, possono e devono essere irrogate anche laddove i correlativi comportamenti non abbiano (ancora) integrato reati.

III.

In ottica 231, a ben guardare, quanto precede è giustificato dal fatto che, allorquando a venire in emergenza sono beni giuridici primari quali certamente sono quelli che il citato decreto intende proteggere, risulti necessario stigmatizzare (anche) comportamenti che, pur non avendo integrato reati, s’appalesino prodromici alla commissione degli stessi.

Perché?

Semplicemente perché, ove commessi, detti reati lederebbero gravemente detti beni.

IV.

Ma anticipare le soglie di tutela, in ambito aziendale, è cosa che risponde anche ad altra e parimenti importante necessità organizzativa.

È noto, infatti, che, in ambito aziendale, esistano i cosiddetti fenomeni di drift to danger.

In ambito aziendale, infatti, esiste il rischio, invero non latente, che, tollerando comportamenti irrispettosi delle misure indicate nel modello 231, si possano arrivare a stagliare sullo sfondo processi di normalizzazione della devianza.

E, come è stato correttamente osservato, ove ciò accadesse, «la devianza (…) estende(rebbe) progressivamente i confini di ciò che è accettabile e accettato all’interno di un gruppo di lavoro, del management, dell’intera organizzazione» [Catino].

V.

Se quanto precede è corretto, non v’è allora chi non veda come la vera importanza della compliance ex modello 231 consista esattamente nella possibilità, che detto modello oggettivamente dà, d’intercettare tempestivamente quelle pratiche lavorative che, per loro natura, sono poste a confine rispetto a legalità e sicurezza organizzative.

Intercettare tempestivamente dette pratiche, infatti, significa scongiurare il rischio che le stesse, nel tempo, si tramutino in prassi.

Cosa, questa, che, ragionandosi qui di prassi devianti, arriverebbe a giustificare l’esistenza, in ambito aziendale, di quella stessa cultura tossica che il legislatore della compliance intende, invece, combattere [e combattere proprio attraverso l’adozione, da parte delle aziende, di modelli 231].

VI.

Anche perché [aspetto, questo, a sua volta, di fondamentale importanza] adottare un modello 231 significa dare vita ad organismo, il cosiddetto organismo di vigilanza, «dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo» cui appaltare «il compito di vigilare sul funzionamento e (sul)l’osservanza de(l) modell(o)» 231  [articolo  6 comma 1 lettera b) decreto legislativo 8 giugno 2001, numero 231].

Il qual organismo, correttamente impostata la questione, essendo «soggett(o) estern(o) non (…) cooptat(o) da altri membri del(l’azienda)» [Catino], ben potrà rappresentare la prima, possibile, contromisura atta a contrastare gli anzidetti fenomeni di drift to danger e, con essi, il segnalato, grave, rischio di stabilizzazione della devianza.