Non passa giorno senza che, ragionando di compliance aziendale, si ragioni, sempre più spesso, di fattori ESG.

Il perché, a ben guardare, è presto detto.

Con il d.lgs. 30 dicembre 2016, n. 254 sono entrate in vigore nuove disposizioni in materia di disclosure non finanziaria che hanno definitivamente sdoganato, anche in Italia, la responsabilità sociale d’impresa.

Cristallizzando l’obbligatorietà, per le società di grandi dimensioni, della reportistica aziendale cosiddetta non finanziaria, il citato decreto ha stabilizzato una vera e propria prassi gestionale virtuosa.

Una prassi gestionale, questa, che aveva già innestato le proprie radici nel terreno imprenditoriale italiano: la comunicazione delle azioni aziendali aventi ad oggetto ambiente, società, personale, diritti umani e corruzione contrassegnava già abitudine corrente delle nostre aziende.

Si consideri, in proposito, come, a mente dell’art. 3 d.lgs. 30 dicembre 2016, n. 254, dette azioni debbano essere comunicate unitamente alla descrizione «[de]l modello aziendale di gestione ed organizzazione delle attività dell’impresa» nonché dell’eventuale modello 231 che la stessa abbia adottato ex d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

Da quanto precede discende che, quando si ragiona di dichiarazione individuale di carattere non finanziario, i temi che devono essere lumeggiati sono quelli, direttamente connessi alle macro-aree ambiente, società, personale, diritti umani, corruzione.

Se così stanno le cose, però, è allora evidente come tra il mondo della disclosure non finanziaria e quello del modello 231 insistano punti di contatto concettuale davvero importanti.

Se ragionare d’utilizzo delle risorse energetiche, d’impiego delle risorse idriche, d’emissioni di gas ad effetto serra ovvero d’emissioni inquinanti in atmosfera, infatti, significa necessariamente ragionare di reati contro la pubblica amministrazione, di delitti di criminalità organizzata, di riciclaggio e d’autoriciclaggio, nonché di reati ambientali, condurre specifici approfondimenti in materia d’aspetti sociali e d’aspetti attinenti alla gestione del personale è cosa che non può non essere filtrata attraverso il prisma proprio d’una risk analysis avente ad oggetto i reati contro la pubblica amministrazione, i delitti di criminalità organizzata, nonché i delitti contro la personalità individuale.

Ma v’è di più.

Perché la materia della sostenibilità riflette i cosiddetti temi materiali.

I quali temi materiali altro non rappresentano se non i temi su cui, ex art. 3 comma 1 d.lgs. 30 dicembre 2016, n. 254, la società è chiamata a rendicontare.

In quest’ottica, particolare importanza sembrerebbe assumere la cosiddetta matrice di materialità prevista dagli standard GRI.

A venire qui in emergenza, come noto, è un output.

L’output finale d’un’analisi condotta a partire da interviste somministrate agli stakeholder e finalizzate a mettere a fuoco aree d’interesse e priorità degli stessi in materia ambientale, sociale e di governance.

Una volta intervistati in merito gli stakeholder, ciò che s’andrà a costruire, in altre parole, sarà una lista.

Una lista che passi in rassegna tutti gli aspetti più rilevanti in chiave ESG, consentendo con ciò di mappare i valori caratterizzanti.

Una volta mappati, gli anzidetti valori verranno graficamente incastonati nell’anzidetta matrice, che, dedicando l’asse delle ascisse a ciò che è rilevante lato azienda e l’asse delle ordinate a ciò che è rilevante lato stakeholder, diventerà così strumento in grado di rappresentare plasticamente gli esiti del confronto azienda-stakeholder.

Se quanto precede è corretto, però, non sembra allora revocabile in dubbio che anche la risk analysis ex d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 possa essere usata per alimentare l’asse delle ascisse, andando a meglio focalizzare gli ambiti rilevanti lato azienda: una volta mappate, in sede di costruendo modello 231, le principali aree a rischio di commissione di reati, infatti, non sarà disagevole ragionare per sottrazione, andando a scorporare dalle stesse i principali temi salienti in chiave ESG.

Il riferimento, più specificamente, è qui al fatto che, come detto, a mente dell’art. 3 d.lgs. 30 dicembre 2016, n. 254, unitamente alle informazioni destinate ad impattare sul piano della sostenibilità, le aziende dovranno comunicare altresì la descrizione del modello aziendale di gestione ed organizzazione delle attività dell’impresa, nonché, ove adottato, quella del modello 231.

La qual cosa, ove l’anzidetto modello sia stato effettivamente adottato, equivale a dire che la dichiarazione individuale di carattere non finanziario dovrà peritarsi d’illustrarne le principali componenti strutturali, con particolare riguardo a quelle a caratura più squisitamente etico organizzativa.

Sull’opposto versante, però, è parimenti vero che il modello 231, ove effettivamente adottato, potrà cedere alla dichiarazione individuale di carattere non finanziario le più importanti informazioni rilevanti anche in merito alle politiche aziendali adottate in materia.

Quanto precede, peraltro, è certamente destinato ad impattare anche sul piano proprio dell’effettiva attuazione del modello 231.

Affinché la società possa andare esente da responsabilità (para-)penale, infatti, è necessario che la stessa abbia, non solo adottato, ma anche efficacemente attuato il modello 231.